“Nell’ultima settimana, almeno 800 persone sono partite dalla Libia nel tentativo di raggiungere l’Europa. Quasi 400 sono state riportate in Libia e, dopo operazioni di sbarco ritardate a lungo a cause della situazione di scarsa sicurezza a terra, sono state poi mandate in detenzione. Almeno 200 di loro sono finiti in centri non ufficiali e risultano non più rintracciabili.”

Nel comunicato stampa di venerdì 17 aprile, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni esprime la sua preoccupazione per la sorte di centinaia di migranti catturati dalla Guardia Costiera Libica e prova, laconicamente, a risvegliare le coscienze dell’Europa che mai come in questo momento si mostra insensibile alla tragedia continua, inesorabile, ampiamente documentata, che si consuma nel mare mediterraneo.

Il coronavirus non ha fermato la guerra civile che ormai da un anno si consuma in Libia sotto gli occhi della comunità internazionale e nonostante i continui moniti delle Nazioni Unite ad un cessate il fuoco. I bombardamenti sono arrivati a Tripoli e a Misurata, uno dei principali porti di partenza per i trafficanti di uomini.

Bombe, combattimenti, epidemia, un’economia al collasso. I motivi per tentare la traversata del mediterraneo dalla Libia sono tanti.

Il 6 aprile la nave umanitaria Alan Kurdi ha soccorso 149 persone ma nessun Paese ha autorizzato lo sbarco indicando un porto sicuro. Soltanto il 17 aprile queste persone state trasbordate sul traghetto Rubattino della Tirrenia dove resteranno in quarantena.

La domenica di Pasqua intorno alle 13.50 si sono persi i contatti con un gommone con a bordo 55 naufraghi.

Il giorno di pasquetta l’altra nave umanitaria ancora operativa nel mediterraneo, Aita Mari, ha tratto in salvo 44 migranti che si trovavano su un gommone in area Sar maltese.

L’organizzazione Alarm Phone che raccoglie le richieste di aiuto provenienti dalle persone che attraversano il mediterraneo, riporta continue segnalazioni di gommoni lasciati alla deriva, richieste di aiuto inascoltate e respingimenti in Libia.

Ai tempi del coronavirus mentre i cittadini europei chiusi in casa si interrogano sul mondo che verrà dopo la pandemia, i loro governi danno prova della propria inadeguatezza.

Il mediterraneo centrale, la rotta migratoria più pericolosa del mondo, è diventato un buco nero.

Il 31 marzo, dopo cinque anni, si è chiusa l’operazione navale Europea Sophia, operazione militare marittima di contrasto al traffico di migranti che – paradossalmente – era rimasta senza navi da un anno. L’Unione Europea ha abbandonato così ogni velo di ipocrisia sulla retorica umanitaria sul tanto decantato ruolo di guida morale del vecchio continente.

Dal 1° aprile è dunque operativa Irini, la nuova operazione militare che ha come obiettivo assicurare l’embargo delle armi in Libia, impedire il traffico di petrolio e fornire assistenza e formazione alla controversa guardia costiera libica.

Non si parla in nessun caso di attività di ricerca e soccorso in mare.

In Italia, la sera del 7 aprile i Ministri De Micheli (Infrasrutture), Lamorgese (Interno), Di Maio (Esteri) e Speranza (Salute) hanno firmato un decreto interministeriale che – di fatto – ha chiuso i porti alle poche nave delle Ong rimaste a salvare vite umane.

L’Italia a causa dell’emergenza sanitaria in corso, per la prima volta nella sua storia, “non è un porto sicuro (place of safety) in virtù di quanto previsto dalla convenzione di Amburgo del 1979”, dimenticandosi che quella stessa convenzione prevede obblighi di cooperazione per individuare un porto sicuro con tempestività. Oltre al preciso obbligo degli Stati di salvare vite in mare sancito dal diritto internazionale umanitario.

Un atto amministrativo di natura secondaria ha così sospeso il Diritto Internazionale.

Qualche giorno dopo, in diretta a reti unificate, il nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, batteva i pugni sul tavolo appellandosi alla solidarietà europea, utilizzando le esatte parole “siamo tutti sulla stessa barca”.

Il 9 aprile anche Malta ha Comunicato alla Commissione UE che l’epidemia non rende i propri porti sicuri allo sbarco, rifiutandosi di soccorrere un’imbarcazione alla deriva con 66 persone a bordo.

Nelle stesse ore il governo di Tripoli, sostento e finanziato dall’ONU e dall’Unione Europea, ha gettato la maschera e ha dichiarato che a causa dei bombardamenti non ha più pieno controllo dei porti. Rifiutando addirittura l’ingresso ad una sua motovedetta con 280 migranti catturati in mare.

Nulla di nuovo sotto il sole. La Libia non è mai stato un porto sicuro e respingimenti contrari al diritto internazionale e omissioni di soccorso in mare sono tristemente diventati cronaca. La gestione di quello che viene considerato il “problema migratorio” non solo oggi è assente, priva di visione e di obiettivi, ma sta scomparendo dall’agenda politica, appaltata ad altri (Libia, Turchia).

Se proprio non abbiamo a cuore quei poveracci in fuga senza permesso di soggiorno, dovremmo forse chiederci come vengono spesi i nostri soldi che finanziano queste politiche fallimentari.

È evidente che nell’emergenza sanitaria drammatica che stiamo vivendo la tutela della salute è prioritaria ma questo non può costituire un escamotage per ripercorrere sentieri di inciviltà che dovevano essere alle nostre spalle.

Infine, proprio adesso che l’emergenza sanitaria sta mostrando uno dopo l’altro tutti i limiti e gli errori delle scelte politiche ed economiche della classe dirigente che abbiamo votato, scelto, appoggiato, applaudito, sempre più timidamente contestato e ci viene data l’opportunità – forse – di correggerli, non dobbiamo commettere l’errore di pensare che queste morti invisibili non ci riguardino. Che la vita degli ultimi anche questa volta non ci riguardi, che siamo immuni di fronte alla loro disperazione.

Non è vero. Quando abbiamo deciso che i loro diritti valgono meno dei nostri, abbiamo ceduto il passo a chi ha svilito il sistema sanitario pubblico o distrutto il sistema scolastico e il diritto del lavoro.

Non permettiamo che questa sia ancora una volta la “normalità”.

 

Scritto da: Nicola Mariani